Diventare umani. L'affascinante tema attorno cui ruota la nuova straordinaria opera videoludica di Quantic Dream, Detroit: Become Human, è una presa di coscienza, una riflessione potente su ciò che ci rende esseri capaci di provare empatia, provare emozioni e che ci rende, di fatto, diversi dalle macchine. Una capacità, questa, che è insita ed è parte fondamentale dell'essere umano, è evidente, ma che in quanto uomini siamo portati per natura a rintracciare in tutte le cose, nonostante queste siano semplici macchine, oggetti inanimati, o degli androidi, appunto. Su questo tema, tanta letteratura e tanto cinema hanno lavorato alacremente, e che ha trovato in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) di Philip K. Dick e nel suo adattamento per il grande schermo, Blade Runner (1982) di Ridley Scott, la sua massima rappresentazione, in cui la macchina/androide - da semplice schiavo o mero esecutore di compiti - inizia a prendere coscienza di sé, a diventare umano. Nel loro essere replicanti, corrotti, devianti o semplici bug di sistema, gli androidi iniziano a familiarizzare con i comportamenti umani, acquisendone i loro pregi e difetti, imparando a riconoscere ciò che giusto e ciò che è sbagliato.
Ma sono davvero loro, gli androidi, i grandi protagonisti del nuovo ambizioso titolo interattivo per PlayStation 4 di David Cage? Oppure il lungo percorso narrativo che ci porta a seguire Connor, Markus e Kara in questo Detroit: Become Human nasconde, in realtà, un significato ancora più profondo?
In una realtà a noi piuttosto vicina - dopotutto, siamo a Detroit nel 2038, a vent'anni dal nostro presente - il nuovo mondo vede coesistere uomini e androidi, dove questi ultimi sono diventati parte integrante della società in quanto svolgono quelle mansioni che gli umani non sono più disposti a svolgere o in cui sono stati soppiantati loro malgrado, generando malcontento e povertà. La Detroit del 2038 è, infatti, teatro di una lotta intestina non solo tra gli stessi umani - suddivisi in ricchi ma pochi, che hanno tratto grande beneficio economico dall'arrivo delle nuove tecnologie e degli androidi, e tanta gente comune dilaniata dall'incertezza economica e sociale - ma anche e soprattutto tra gli umani e gli androidi. In questo scenario cupo e deviato, ma incredibilmente realistico, Quantic Dream ci getta in modo inedito nei panni sintetici di tre diversi personaggi, tutti androidi, permettendoci di vivere questa esperienza dal loro punto di vista. C'è Connor, l'androide di ultima tecnologia, programmato per dare la caccia ai "devianti", i cui richiami al Rick Deckard di Blade Runner sono piuttosto evidenti; poi c'è Kara, una androide programmata per prendersi cura delle persone, per cui l'amore diventa un prezzo da pagare importante; e infine c'è Markus, un androide che si ritrova ad essere leader di una resistenza contro gli umani per permettere a queste macchine di riscattarsi e di liberarsi dal loro status di schiavi.
Il materiale narrativo su cui David Cage e il suo team hanno imbastito il plot di Detroit: Become Human è di eccellente livello, caratterizzato non solo da tematiche forti e di grande impatto emozionale, ma anche da un'intrigante meccanica basata su scelte da parte del giocatore, che va ben oltre quanto visto in passato in altre opere analoghe dello studio parigino, come Heavy Rain (che è il diretto predecessore di Detroit: Become Human, da cui quest'ultimo recupera alcuni dei suoi aspetti più affascinanti) e Beyond: Due Anime. Se è vero che Quantic Dream non è nuovo ad interpellarci continuamente all'interno dei suoi giochi con dilemmi e scelte morali, ciò che permette a questo nuovo titolo di compiere un passo in avanti rispetto al passato è l'effettivo peso che ogni scelta presa porta con sé, sulle conseguenze decisive che ha sulla nostra esperienza. Prova di questo è l'intricato diagramma che appare a conclusione di ciascun capitolo, in cui possiamo toccare con mano il percorso ramificato delle nostre scelte, le quali - a seconda della strada intrapresa - sbloccano chiaramente precisi esiti che, com'è lecito attendersi, conducono a finali molto diversi. Il tipo di scelte che siamo chiamati a compiere, tuttavia, non influenzano esclusivamente la macro-storia di Detroit: Become Human, ma anche gli aspetti micro-narrativi: il nostro rapporto con gli altri personaggi, siano essi umani o androidi, si sviluppa esattamente in base alle decisioni che i nostri tre diversi protagonisti decidono di compiere e non c'è da stupirsi se, a mano a mano che la trama procede, le vostre risposte e le vostre scelte in momenti più o meno chiave dipenderanno dal tipo di rapporto che avete deciso di stringere con gli altri comprimari.
L'aspetto più affascinante, narrativamente parlando, della nuova fatica di Quantic Dream risiede esattamente qui, ossia nel fatto che, nonostante i giocatori abbiano l'illusione di compiere delle scelte all'interno del gioco - dopo tutto, stiamo parlando di un prodotto creato da un gruppo di sviluppatori, che in un modo o nell'altro guidano il nostro percorso - il legame empatico che questi costruiscono non solo con i tre protagonisti, ma anche con gli altri personaggi, può portare ad esiti inaspettati. In altre parole, sebbene il percorso narrativo sia in qualche modo guidato da una presenza onnisciente (lo sviluppatore), è il giocatore a scegliere quale sia l'iter che meglio rispecchia il suo punto di vista, soprattutto in base ai rapporti che i tre diversi androidi instaurano con gli altri personaggi. Da questo punto di vista, Connor è il personaggio che meglio esemplifica tale concetto e che, più degli altri, vive (e fa vivere al giocatore) in un continuo limbo tra l'essere una fredda macchina con una missione ben precisa (dare la caccia agli androidi devianti, dunque a suoi simili) e un uomo di plastica e chip che si ritrova ad interagire con uno scorbutico, ma eccezionale tenente di polizia umano, Hank Anderson, con i suoi preconcetti verso queste macchine. Siete voi, e solo voi, con le vostre scelte, a decidere in che modo muovervi in questo mondo e come far agire i vostri androidi.
Ci siamo dilungati un po' sull'aspetto narrativo di Detroit: Become Human, ma è indubbio che questo sia il vero e proprio cuore pulsante di tutta l'esperienza offerta da Quantic Dream. Tuttavia, accanto ad una trama profonda e ad una caratterizzazione dei personaggi principali (e non solo) di altissimo livello, la nuova creazione di David Cage resta, in fin dei conti, un prodotto ludico, e qui il gameplay, nonostante la sua semplicità, è stato ben congeniato e diversificato anche grazie alla presenza dei tre protagonisti. Ciascuno, infatti, porta con sé dinamiche di gioco differenti e, sebbene il meccanismo delle scelte rappresenti per tutti e tre l'elemento portante e unificante dell'esperienza, questo escamotage adottato dai Quantic Dream permette al gioco di essere costantemente fresco e di non annoiare mai. Partiamo da Connor, il quale utilizza la sua vista bionica per raccogliere i diversi indizi che ci permettono di decifrare gli avvenimenti accaduti in un dato luogo, esattamente come in altri giochi con meccaniche investigative al suo interno (ad esempio, i Batman Arkham di Rocksteady). A questo si accompagna una meccanica ancora più interessante che, in base degli indizi acquisiti, permette di simulare gli eventi dietro un dato omicidio o incidente occorsi sulla scena del crimine per riuscire a ricostruire quanto è accaduto.
In modo differente, Markus, invece, è portatore della componente più action (se è corretto definirla tale in un titolo di questo tipo) di Detroit: Become Human, il quale - attraverso un costante utilizzo della meccanica QTE, più degli altri due - si trova spesso coinvolto in scontri con gli umani, dove la prontezza di riflessi del giocatore è l'elemento decisivo che separa l'androide e i suoi compagni di ribellione dalla vita alla morte. Anche Markus, come Connor, possiede una un'abilità visiva speciale, ma nel suo caso gli permette di pianificare in anticipo un preciso percorso che gli permetta di attraversare un dato ambiente senza avere conseguenze letali sulla sua vita. Funziona in un modo simile alla meccanica di Connor, permettendo di riavvolgere a piacimento il tempo in avanti e indietro per stabilire quale possa essere il modo migliore per uscire indenni da una data situazione. Per quanto riguarda Kara, invece, potremmo dire che la sua meccanica di gameplay è quella maggiormente focalizzata sul puzzle-solving, in quanto, dopo aver esplorato un dato ambiente grazie alla sua abilità visiva speciale, e aver trovato determinati oggetti che sbloccano o meno determinati percorsi, può risolvere alcuni enigmi che possono avere conseguenze importanti sull'evolversi immediato della vicenda.
Questa alternanza di generi e atmosfere permette al gioco di avere un ritmo altamente sostenuto e non risultare mai uguale a sé stesso per troppo tempo, conferendogli quel dinamismo che è vitale in opere incentrate pesantemente sulla trama come questo. In questo aspetto, Detroit: Become Human compie un importante passo avanti rispetto al suo predecessore, Beyond: Due Anime, il quale, incentrato su un unico personaggio, è stato eccessivamente appesantito, nonostante una seppur ridotta alternanza di generi al suo interno. Paradossalmente, in realtà, Detroit: Become Human compie un passo indietro rispetto al suo predecessore più recente, in quanto recupera la medesima struttura di Heavy Rain (tre personaggi, tre differenti gameplay), tuttavia espandendola e rendendola molto più complessa. In altre parole, potremmo dire che questo nuovo titolo rappresenta, in qualche modo, la summa di ciò che funzionava davvero nei due giochi precedenti di Quantic Dream, spingendo i loro limiti in modo egregio e restituendo un prodotto finale di altissimo livello.
Accanto ad un impianto così compatto, ciò che stupisce di Detroit: Become Human è il suo eccellente comparto grafico, che resta solido per tutta l'esperienza. Nonostante il gioco sia particolarmente esigente in termini di risorse per i nostri hardware PS4, visto l'elevato livello di dettaglio che il titolo porta con sé, non ci è mai capitato di imbatterci in qualche calo di frame-rate, anche nelle sequenze più concitate - e questo sarebbe un danno irreparabile, soprattutto visto che la maggior parte di queste si basano sui QTE, dove la fluidità dell'azione appare una condizione necessaria per permettere ai giocatori di avere prontezza di riflessi. Oltre alla mera questione tecnica, risulta davvero impossibile non restare ammaliati dalla bellezza e dalla ricercatezza nei dettagli con cui non solo i personaggi, ma anche i diversi ambienti del gioco, sono stati accuratamente tratteggiati. Chi scrive ha giocato a Detroit: Become Human su una PS4 Pro, la quale restituisce in forma eccezionale un prodotto che ambisce quasi ad essere film, nonostante mantenga intatta la sua componente interattiva. Ottime le performance di tutti gli attori coinvolti, da Bryan Dechart (Connor - e aspetto curioso, il suo cognome, scritto un po' diversamente, non ricorda quello di un certo personaggio di fantascienza?) a Valorie Curry (Kara), passando per Jesse Williams (Markus) e Clancy Brown (Hank Anderson), che hanno senza dubbio offerto un ottimo valore aggiunto all'esperienza complessiva di Detroit.
Eppure, l'aspetto che indubbiamente affascina di Detroit: Become Human è esattamente la sua trama così profondamente stratificata e sapientemente confezionata. È abbastanza chiaro che la maggior parte dei giocatori concluderà il suo primo playthrough in un certo modo, in modo positivo e anche abbastanza prevedibile. Ma questo, in realtà, è terreno fertile per playthrough successivi, in cui i giocatori potranno sperimentare in modo più rilassato e, se vogliamo, con qualche azzardo in più per scoprire esiti differenti della vicenda. Vedrete, sarete stimolati a scoprire se, non prendendo una determinata decisione, o affrontando un evento in modo differente, le cose cambieranno. E credeteci, cambieranno davvero.
Per ora, abbiamo avuto solo parole di encomio ed entusiastiche nei confronti del nuovo gioco di Quantic Dream, nonostante queste siano tutte assolutamente meritate. Tuttavia, anche Detroit non è esente da qualche problemino che già in fase di preview avevamo avuto occasione di sottolineare. In primo luogo, sebbene si siano fatti enormi passi avanti rispetto al passato, uno degli elementi che continua un po' ad infastidirci delle opere dello studio francese sono proprio i QTE. È principalmente una questione di gusti, sia chiaro, ma talvolta l'essere colti di sorpresa da una sequenza QTE, senza avere il tempo materiale di reagire portando ad un esito indesiderato, è abbastanza frustrante. Vogliamo ribadirlo, rispetto ad Heavy Rain e Beyond: Due Anime, Quantic Dream ha fatto passi da gigante per rendere queste situazioni meno posticce; eppure, per quanto ci riguarda, continuiamo a provare un certo brivido (di rabbia) tutte le volte che una situazione ci scivola dalle mani per colpa di un paio di pulsanti schiacciati per sbaglio, magari colti dalla frenesia dell'attimo.
Anche la telecamera, ogni tanto, ci ha creato qualche problema, diventando ingestibile in alcuni momenti (magari quando al nostro personaggio viene chiesto di osservare un determinato punto di interesse con L1), ma nulla, va detto che abbia compromesso in modo irreparabile la nostra esperienza di gioco. Ci siamo anche imbattuti in un divertente bug, che probabilmente verrà corretto in fase di lancio, in cui uno dei nostri androidi si è trovato a spingere un carrello...invisibile! Ma al netto di questi (pochissimi) problemi rintracciati e una nostra personale antipatia per i QTE, non ci sentiamo di dover presentare altri difetti di Detroit: Become Human.
Abbiamo aperto questa recensione con una domanda: sono davvero gli androidi i grandi protagonisti del nuovo ambizioso titolo di David Cage? Quella che sembra la risposta più ovvia, in realtà, è la meno esatta. Già perché gli unici grandi protagonisti di questa straordinaria storia, che mescola sapientemente attualità e fantascienza, sono i giocatori stessi, sono loro a dover dimostrare di "essere diventati umani" a seguito delle straordinarie vicende che hanno vissuto sulla propria pelle all'interno del gioco. Ed è esattamente in questo aspetto che risiede la forza più grande di Detroit: Become Human, quella di essere un'opera ambiziosa, certo, che non mira solo ad intrattenere il suo pubblico, ma a metterlo di fronte a dei quesiti di grande valore, dimostrando ancora una volta quanto questo medium possa essere un eccellente veicolo di messaggi e temi importanti.
Detroit: Become Human non è solo una storia avvincente, affascinante, sublime, racchiusa all'interno di una splendida confezione: è un prodotto culturale e artistico in tutti i sensi, che non si limita solo ad appagare i giocatori con un'esperienza di gioco completa e intrigante, ma porta con sé una riflessione importante, un messaggio che accende i neuroni una volta messo giù il controller e aver completato uno dei tanti finali differenti che ci attendono. Ma come tutti i titoli di Quantic Dream, o lo si ama alla follia o lo si odia, non esistono le mezze misure. Se siete alla ricerca di un'opera totale, che talvolta sacrifica il gameplay per raccontare una storia di forte pregnanza, ma che vi pone di fronte a degli interrogativi eccezionali, allora Detroit: Become Human è esattamente quel tipo di esperienza mistica che state cercando. E fidatevi, David Cage e il suo team non vi deluderanno.